In particolare, oggi vediamo come la crisi 
                  rappresenta lo sfondo teorico per una strategia di sviluppo 
                  orientata al progressivo scaricamento verso il basso dei costi 
                  di accumulazione e competizione.
                  In conseguenza di ciò la “competitività 
                  dell’impresa” è posta dall’agenda politica istituzionale come 
                  questione da cui dipende la sopravvivenza sociale della 
                  collettività e di cui deve prioritariamente farsi carico.
                  In questo modo, la progressiva precarizzazione 
                  della forza lavoro e la generale aggressione alla condizione 
                  di vita non sono più semplicemente giustificati invocando una 
                  politica dei sacrifici, in vista di una millantata promessa di 
                  miglioramento dei livelli di vita di tutti i soggetti sociali, 
                  ma piuttosto la sopravvivenza è la totale disponibilità alla 
                  subordinazione, alle esigenze “flessibili di competitività”.
                  In cambio, però, non c’è nulla se non la pura 
                  possibilità di sopravvivere a condizioni sempre peggiori.
                  La massa dei precarizzati, degli sfruttati, 
                  dei non aventi diritto si allarga a dismisura ponendo grosse 
                  contraddizioni e avvicinando a questi anche ceti medi che fino 
                  a qualche anno fa vivevano di alcune certezze, quantomeno 
                  economiche.
                  Dall’altra parte nuovi ricchi emergono e 
                  manipolano capitale, ci sono accentramenti spaventosi e 
                  svendite altrettanto significative.
                  Non soffrono di difficoltà economiche e anzi 
                  riescono ad avvantaggiarsi dell’emergenza, trovano le risorse 
                  per rilanciare gli investimenti all’estero, aumentano in modo 
                  consistente le spese militari e le commesse statali nel 
                  settore degli armamenti e nella sicurezza pubblica, in modo da 
                  polarizzare i redditi in maniera crescente.
                  La crisi rappresenta dunque l’argomentazione, 
                  l’arma teorica con cui il padronato costruisce un argine, un 
                  muro indistruttibile attorno ai propri interessi.
                  Le disuguaglianze si approfondiscono e si 
                  rafforzano, riguardano in primo luogo il reddito e poi la 
                  ricchezza familiare complessiva il cui livello di 
                  concentrazione è assai elevato ed evidenzia l’andamento a 
                  forbice dell’economia italiana.
                  Il 22% delle famiglie italiane risultano 
                  essere le più ricche possedendo quasi la metà (47%) 
                  dell’intero ammontare di ricchezza netta, mentre il 19% delle 
                  famiglie possiede una ricchezza inferiore a 10 mila euro 
                  l’anno (dati ufficiali Istat, Censis e Banca d’Italia).
                  Si può evidenziare in base a questi dati 
                  l’enorme divario, quel dato denunciato da più parti di un 
                  impoverimento generale, di un appiattimento degli strati 
                  sociali più precarizzati e dall’altro verso una maggiore 
                  concentrazione di ricchezza di una fetta sempre più ristretta 
                  di benestanti.
                  L’esistenza di queste dinamiche toglie 
                  legittimità al discorso della crisi e al relativo dispositivo 
                  politico, mostrando che esistono ampi spazi per un’operazione 
                  di redistribuzione del reddito.
                  Emerge con chiarezza la necessità per i 
                  soggetti sociali di “fuoriuscire” dal paradigma della crisi, 
                  poiché restando confinati nella decadenza economica non vi è 
                  alcuna prospettiva concreta.
                  Accettare il paradigma della crisi così come 
                  la classe dirigente la presenta oggi, non comporta altro che 
                  l’aggravarsi di una crisi più generale per le classi 
                  subalterne.
                  Occorre fondare un ordine del discorso che 
                  consenta ai soggetti sociali di sottrarsi alla crisi, negando 
                  questo vincolo di apparente realtà: se si cambia situazione, 
                  se ci si muove strategicamente su un altro terreno, il 
                  dispositivo politico della crisi esplode, la crisi stessa 
                  cambia significato.
                  E’ necessario spingersi verso il tempo 
                  successivo, verso un livello più alto come soggetto in grado 
                  di porre condizioni di avanzamento, di trasformazione e di 
                  conquiste sociali.
                  Non è in crisi la singola fabbrica, non è 
                  questo il tempo di sacrifici che saranno presto premiati, non 
                  si tratta di accettare oggi la compressione dei nostri diritti 
                  in cambio di una ripresa imminente dell’economia e del 
                  benessere collettivo.
                  Le lotte dei lavoratori devono dichiarare 
                  l’indisponibilità dei soggetti sociali a prendere sulle 
                  proprie spalle quanto viene presentato come “realtà 
                  della crisi”.
                  Un cambiamento improvviso del sistema di 
                  sviluppo è prospettabile se si tiene conto dell’unico 
                  possibile fattore di “crisi sistemica”: i precarizzati, 
                  soggetti che subiscono la crisi in termini di mancanza di 
                  reddito, insicurezza, impossibilità di costruire un futuro 
                  libero e autonomo.
                  Rappresentano il perno della produzione e il 
                  controllo della loro vita lavorativa determina una forma di 
                  organizzazione adeguata a questa strategia di accumulo di 
                  capitale.
                  Per tutto questo è anche l’unico soggetto 
                  possibile in grado di determinare un cambiamento possibile, di 
                  modificare il flusso e determinare un’accettabile 
                  trasformazione dei rapporti di forza.