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La retorica della crisi utilizzata come
strumento politico


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Non passa giorno che un qualche studio di settore non ponga l’accento sullo stato di sofferenza in cui verserebbe “l’impresa Italia” e sui fattori che frenano le ali degli impegni imprenditoriali nostrani: ora la pressione fiscale troppo alta, ora la concorrenza sleale della Cina, ora l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, ora le politiche economiche comunitarie governate da normative troppo rigide.

In particolare, oggi vediamo come la crisi rappresenta lo sfondo teorico per una strategia di sviluppo orientata al progressivo scaricamento verso il basso dei costi di accumulazione e competizione.

In conseguenza di ciò la “competitività dell’impresa” è posta dall’agenda politica istituzionale come questione da cui dipende la sopravvivenza sociale della collettività e di cui deve prioritariamente farsi carico.

In questo modo, la progressiva precarizzazione della forza lavoro e la generale aggressione alla condizione di vita non sono più semplicemente giustificati invocando una politica dei sacrifici, in vista di una millantata promessa di miglioramento dei livelli di vita di tutti i soggetti sociali, ma piuttosto la sopravvivenza è la totale disponibilità alla subordinazione, alle esigenze “flessibili di competitività”.

In cambio, però, non c’è nulla se non la pura possibilità di sopravvivere a condizioni sempre peggiori.

La massa dei precarizzati, degli sfruttati, dei non aventi diritto si allarga a dismisura ponendo grosse contraddizioni e avvicinando a questi anche ceti medi che fino a qualche anno fa vivevano di alcune certezze, quantomeno economiche.

Dall’altra parte nuovi ricchi emergono e manipolano capitale, ci sono accentramenti spaventosi e svendite altrettanto significative.

Non soffrono di difficoltà economiche e anzi riescono ad avvantaggiarsi dell’emergenza, trovano le risorse per rilanciare gli investimenti all’estero, aumentano in modo consistente le spese militari e le commesse statali nel settore degli armamenti e nella sicurezza pubblica, in modo da polarizzare i redditi in maniera crescente.

La crisi rappresenta dunque l’argomentazione, l’arma teorica con cui il padronato costruisce un argine, un muro indistruttibile attorno ai propri interessi.

Le disuguaglianze si approfondiscono e si rafforzano, riguardano in primo luogo il reddito e poi la ricchezza familiare complessiva il cui livello di concentrazione è assai elevato ed evidenzia l’andamento a forbice dell’economia italiana.

Il 22% delle famiglie italiane risultano essere le più ricche possedendo quasi la metà (47%) dell’intero ammontare di ricchezza netta, mentre il 19% delle famiglie possiede una ricchezza inferiore a 10 mila euro l’anno (dati ufficiali Istat, Censis e Banca d’Italia).

Si può evidenziare in base a questi dati l’enorme divario, quel dato denunciato da più parti di un impoverimento generale, di un appiattimento degli strati sociali più precarizzati e dall’altro verso una maggiore concentrazione di ricchezza di una fetta sempre più ristretta di benestanti.

L’esistenza di queste dinamiche toglie legittimità al discorso della crisi e al relativo dispositivo politico, mostrando che esistono ampi spazi per un’operazione di redistribuzione del reddito.

Emerge con chiarezza la necessità per i soggetti sociali di “fuoriuscire” dal paradigma della crisi, poiché restando confinati nella decadenza economica non vi è alcuna prospettiva concreta.

Accettare il paradigma della crisi così come la classe dirigente la presenta oggi, non comporta altro che l’aggravarsi di una crisi più generale per le classi subalterne.

Occorre fondare un ordine del discorso che consenta ai soggetti sociali di sottrarsi alla crisi, negando questo vincolo di apparente realtà: se si cambia situazione, se ci si muove strategicamente su un altro terreno, il dispositivo politico della crisi esplode, la crisi stessa cambia significato.

E’ necessario spingersi verso il tempo successivo, verso un livello più alto come soggetto in grado di porre condizioni di avanzamento, di trasformazione e di conquiste sociali.

Non è in crisi la singola fabbrica, non è questo il tempo di sacrifici che saranno presto premiati, non si tratta di accettare oggi la compressione dei nostri diritti in cambio di una ripresa imminente dell’economia e del benessere collettivo.

Le lotte dei lavoratori devono dichiarare l’indisponibilità dei soggetti sociali a prendere sulle proprie spalle quanto viene presentato come “realtà della crisi”.

Un cambiamento improvviso del sistema di sviluppo è prospettabile se si tiene conto dell’unico possibile fattore di “crisi sistemica”: i precarizzati, soggetti che subiscono la crisi in termini di mancanza di reddito, insicurezza, impossibilità di costruire un futuro libero e autonomo.

Rappresentano il perno della produzione e il controllo della loro vita lavorativa determina una forma di organizzazione adeguata a questa strategia di accumulo di capitale.

Per tutto questo è anche l’unico soggetto possibile in grado di determinare un cambiamento possibile, di modificare il flusso e determinare un’accettabile trasformazione dei rapporti di forza.

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